In realtà sarebbero molte più di 10 e il numero tende a +infinito. Per comodità, e perché ho visto far così già da altri che mi hanno preceduto, mi concentrerò sulla TOP TEN, i 10 migliori modi (dal basso della mia umile esperienza), per far incazzare un designer. Azioni, affermazioni, atteggiamenti, ce n’è per tutti i gusti.

«Ma tu prova lo stesso.»
È una richiesta che fa venire il prurito alle mani. Se discutere con un cliente una scelta stilistica è un esercizio sfiancante, discutere per poi essere ignorato fa decisamente arrabbiare. Quante volte capita che il cliente ci chieda di fare cose che accostate alla parola “grafica” fanno venire la pelle d’oca. Tu provi a spiegare che forse quello che vuole non è molto bello e nemmeno funzionale al suo progetto. Una, due, tre volte. Alla quarta scatta la frase che ti mette con le spalle al muro: «Sì, va bene ho capito. Ma tu prova lo stesso». Sappiamo benissimo che è retorica, che dietro quell’affermazione si nasconde un «Senti stupido artista del cazzo, fallo così perché io ti pago e lo voglio così». A quel punto abbiamo due possibilità:
a. farglielo e sperare che si renda conto che era una minchiata.
b. mandarlo a stendere e dirgli «Visto che ne sai più di me, te lo fai da solo!»
A voi la scelta. E le conseguenze.

Il marchio del cliente.
Quello del marchio del cliente è un mistero degno di Kazzenger. Può sembrare bizzarro ma pare che i clienti non posseggano il file vettoriale del proprio marchio. In casi estremi non possiedono il proprio marchio in nessun formato grafico ma ogni agenzia che lavora (o ha lavorato) per loro ne possiede uno, perché ogni volta se lo ridisegna. Per il cliente è un fastidio occupare qualche KB del prezioso hard disk del proprio pc con i file del proprio marchio. Metti che poi devi cercarlo per impaginarlo su qualche presentazione o girarlo a un fornitore. Stressante. È più comodo chiederlo all’agenzia via mail ogni volta.
Tutte le volte che chiediamo il marchio di un cliente siamo terrorizzati. Che file arriverà? Sarà bello o brutto? Ma arriverà? Tranne pochi illuminati, se siamo fortunati arriva un jpg a una risoluzione decente. Di solito arriva una scansione storta jpg in RGB ma la fantasia dei clienti non ha confini. Volete qualche esempio? Peggio per voi:
– png (non trasparente) da 8 KB
– png scaricato dal sito. Quando ti dicono: «Il marchio? Lo trovi sul nostro sito!» E tu che sei un ottimista pensi a un’area download. Sbagliato. È il png incorporato nell’header …
– jpg da 5 KB
– jpg incorporato in un file di Word
– jpg del marchio inserito in un file di Power Point in cui è aggiunto il payoff;
– scansione del biglietto di visita (anche in bianco e nero)
– foto fatta con il telefono del biglietto di visita tenuto in mano. Con un dito che copre parzialmente il marchio;
– file di Corel Paint. Rigorosamente in RGB, con dei colori stile pennarelli Carioca che, una volta convertiti in quadricromia, non corrisponderanno mai.
E mi fermo.

«Qui c’è troppo bianco, non possiamo riempire questi spazi?»
È risaputo che molti clienti soffrono della sindrome dell’horror vacui. Uno spazio vuoto in un impaginato li terrorizza. Bisogna riempirlo. Perché appaga la vista, perché pensano di non essere stati abbastanza prolissi e perché così hanno la sensazione di non sprecare i soldi lasciando spazi vuoti. I clienti non sono in grado di capire il bilanciamento dei pieni e dei vuoti, men che meno le regole del percorso visivo. E se provi a chiedere da cosa derivi questa sensazione di vuoto la risposta in genere è «Mah… boh… non saprei, mi sembra vuoto». Deve essere sempre e solo tutto più grande.

«Conosco uno che me lo fa per meno.»
Un mantra dei clienti. Un classico che non passa mai di moda. Ogni cliente ha un amico, conoscente, nipote, figlio, amico del figlio, amico del nipote, nipote di secondo grado, che si “diletta” di grafica e/o fotografia. Sì, “diletta” è il verbo usato. Come se il nostro lavoro fosse una cosa che uno può fare per gioco o passatempo, come collezionare francobolli. Quando il cliente ci mette di fronte a questa eventualità istintivamente ci verrebbe da rispondere: «Allora fattelo fare!». In realtà abbiamo sempre le solite due alternative: la morte o la vergogna. Di solito scegliamo la seconda. Per sopravvivere. L’unica soddisfazione, effimera, è che il cliente avrà pagato sì meno ma per un lavoro al di sotto degli standard minimi di qualità. Ma questo lo sapremo solo noi. Lui sarà contento del proprio prodotto e convinto di aver pure risparmiato. Meno non significa meglio.

Le immagini.
Si può comprendere (fino a un certo punto) che un cliente che non fa il nostro mestiere non sia tenuto a sapere la differenza tra un’immagine in alta risoluzione e una in bassa risoluzione, o tra un file per la stampa e uno per il web. Si è meno comprensivi quando non sa distinguere una foto brutta (come qualità o come soggetto) da una buona ma ha la presunzione di saperlo.
Il discorso immagini però non si limita a questi aspetti, si potrebbe andare avanti per ore. Ad esempio si potrebbe discutere del fatto che non si può pretendere un prodotto esclusivo acquistando a 2 Euro le immagini su Shutterstock che chiunque può acquistare, o che le foto, se proprio vuol farle il cliente, sarebbe opportuno farle fare a un fotografo. Che sia una amico, un parente, il nipote, l’amante non ha importanza, basta che sia un fotografo professionista.
A proposito di immagini: quello che i tecnici della scientifica di CSI riescono a fare con le foto accade solo nelle serie televisive.

Non è mai ciò che ci si aspetta.
Tutto nasce uguale, tutto muore diverso. Soprattutto nella grafica. Dopo serate di “pizza a video”, litri di caffè, appuntamenti saltati, vita sociale azzerata per stare dietro alle continue revisioni imposte dal cliente, può capitare che questi non si senta ancora pienamente soddisfatto del lavoro fatto per lui e di come vi ha ridotto. I lavori partono sempre tutti con buoni propositi. Pare che si affidino totalmente a te. Poi, dopo venti modifiche di impaginazione, dieci font sostituiti e successivamente ingranditi o rimpiccioliti, testi che partono con tre righe e finiscono con tremila battute, accade che il cliente non si senta soddisfatto. «Non so, non è quello che mi aspettavo…». La colpa? In genere è nostra, perché a detta loro siamo stati poco creativi e poco propositivi. Ti fanno capire che in realtà si stanno accontentando del prodotto che gli hai fatto per poter poi contrattare al ribasso il compenso da fame che avevano pattuito. E più sono ricchi più sono tirchi.

L’incubo del Frankenstein
Accade che durante una presentazione creativa, il cliente s’innamori di tutte le proposte che gli vengono sottoposte. «Bello!» direte voi. Penserete di aver lavorato bene e azzeccato al primo colpo le richieste del brief; ora il cliente sceglierà una proposta e il gioco e fatto. Purtroppo no. Quando a un cliente piacciono tutte le proposte è un cattivo segno. Vuol dire che Frankenstein è in agguato e si materializzerà nella domanda che nessun creativo vorrebbe mai sentire: «Belle! Mi piacciono tutte! Non possiamo fare un mix?». Come suggerisce il nome del mitico personaggio cinematografico, il cliente creerà la sua personale proposta creativa prendendo la head da una, il visual dall’altra, il copy di un’altra ancora. Poco importa se le tre proposte avevano concept diversi. A lui piacevano tutte.

Questioni di carattere
Una delle (tante) cose che il cliente sottovaluta è l’utilizzo dei caratteri tipografici. Può sembrare banale ma la scelta del carattere giusto ha un impatto sulla leggibilità, sull’armonia e l’equilibrio di un impaginato. Senza entrare nello specifico dei risvolti psicologici e di personalità di un carattere (il cliente non capirebbe), esiste una relazione diretta tra il contenuto di un documento e il carattere utilizzato. Una relazione così stretta che rende visibili le “incongruenze” nel momento in cui ne viene utilizzato uno inadatto in un determinato contesto. Domande tipo “Possiamo usare un carattere più bello?” o “Mettiamo un font più moderno” sono fuori luogo.

So tutto io.
Non chiediamo ai clienti di esprimersi con frasi e tecnicismi tipici del nostro mestiere e nemmeno chiediamo che abbiano il nostro livello di competenza tecnica (Dio ce ne scampi). È sufficiente che si rivolgano a noi con quel pizzico di umiltà di chi è consapevole di avere di fronte un professionista del design e della comunicazione. Noi vi rispettiamo. Voi dovreste fare altrettanto. Limitatevi a fare il cliente. Già così fate abbastanza danni. Un creativo accetta a denti stretti un consiglio o un appunto fatto da un altro creativo. Figuriamoci come può prendere un consiglio di un cliente che si sente creativo.

Presto che è tardi!
I clienti hanno uno strano rapporto col tempo. Ne impiegano tanto per decidere e ne concedono poco per lavorare. Fanno richieste con tempistiche da fotocopiatrice pensando che la creatività sia una funzione del programma come “Salva col nome”, fanno pressione psicologica al limite dello stalking fino a quando non consegni i layout, dopo di ché spariscono nel nulla. Non una telefonata, un feedback. Passano giorni, a volte settimane, fino a quando non spunta una mail a un giorno dalla consegna degli esecutivi in cui ti dicono che hanno riflettuto ed è tutto da rifare. Ovviamente senza spostare in avanti di un minuto la dead line.


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