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Il marchio, questo sconosciuto…
Il marchio è la convenzione simbolica per cui ad ogni prodotto, azienda o isituzione corrisponde un segno grafico identificativo. Dovrebbe essere (oggi più che mai il condizionale è d’obbligo) l’espressione tangibile dell’anima di un’impresa o di un prodotto. Come dice Emanuele Bono nel libro “Logos Alphabet” di Lorenzo Marini, “Bisogna prenderli sul serio i marchi. Perché ci dicono qualcosa di profondo e di (quasi) definitivo su persone, prodotti e storie di aziende”.
La nascita dell’era dell’informazione e della comunicazione ha amplificato il valore e l’importanza del marchio quando è subentrata una sorta di ossessione per cui sempre più energie e capitali venivano investiti sulla sua diffusione e sulla ricerca di valori, princìpi e ideali da associare ad esso. Siamo negli anni ’80. Già a quell’epoca Armando Testa denunciava (qui) la sovrappopolazione di marchi, oltretutto in un’epoca in cui non c’era né la grafica computerizzata né internet e per fare un marchio bisognava saperlo pensare, progettare e disegnare con le manine sante. Già allora i clienti non resistevano alla tentazione di avventurarsi in grafismi pacchiani e ridondanti e i grafici stessi cercavano la propria affermazione nel disegnare marchi complicati decodificabili solo da semiologi sotto effetto di droghe.
Loghetto, marchietto, simboletto… oh oh oh…
Lato clienti, oggi non è cambiato molto. Ti chiedono di disegnare un logo per qualsiasi cosa. I concetti di sintesi, chiarezza, leggibilità e memorabilità negli anni hanno ceduto il passo all’originalità nella sua forma peggiore, che si è tradotta nell’utilizzo sfrenato di colori, segni, simboli, font, effetti di Photoshop e amenità varie in estrema libertà. Pure troppa. Tutto questo ha generato una crisi di rigetto. Ha favorito la proliferazione di “grafismi” che col concetto primordiale di marchio hanno ben poco a che fare.
Ma ciò che è cambiato profondamente rispetto a trentacinque anni fa è lo scenario. Con la massificazione delle tecnologie e con competenze professionali sempre più “liquide” si è ridimensionato il ruolo e peso professionale del progettista grafico e contemporaneamente si è abbassata la percezione dell’importanza strategica e comunicativa del marchio. È venuto meno il suo ruolo di conseguenza il valore, sia in termini di comunicazione che in termini di prestigio e guadagno per il designer che lo realizza.
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“Avrei bisogno di un marchietto.
Ma guarda è una cosa da niente,
non perderci troppo tempo”
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Già all’inizio, quando i clienti chiedono ai designer di realizzare un marchio hanno le idee un po’ confuse. Lo vogliono perché è figo e dà un tono ma sotto sotto non sanno bene cosa farci, se non inserirlo nell’immagine (s)coordinata. All’atto della richiesta ogni cliente lo definisce a modo suo: c’è chi lo chiama logo, chi marchio, chi simbolo, ma di solito preferiscono usare il diminutivo, “loghetto”, “marchietto” o “simboletto”, ciò fa capire subito lo scarso valore che gli attribuiscono.
“Avrei bisogno di un marchietto. Ma guarda è una cosa da niente, non perderci troppo tempo”. Allora perché lo vuoi? Se vuoi una cosa da niente non ti servirà a niente. Chissà, forse pensano che se non gli danno troppa importanza lo pagheranno meno. O forse pensano che così lo disegniamo più piccolo, lo sforzo per farlo sarà minore e quindi lo pagheranno meno. O magari hanno saputo che il marchio Nike è costato 35 dollari per cui il loro, non essendo Nike, deve costare per forza di meno.
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“Le idee servono e si devono pagare,
perché le competenze hanno un valore economico.”
[/mk_title_box][vc_column_text]Da un po’ di tempo, nell’ambito del processo di declino delle professioni creative, è in uso la pratica antipatica (tutta italiana) di indire gare per la realizzazione di marchi (a volte anche progetti più complessi) per i quali è previsto poco o nessun compenso. E sovente quel poco non è nemmeno in denaro, a dimostrazione di quanto il lavoro creativo in questo Paese non sia considerato come gli altri ma come un simpatico passatempo che non richiede particolari sforzi, per cui non deve essere riconosciuto come gli altri. I progettisti grafici sono trattati alla stregua di ragazzini a cui piace disegnare per diletto, perciò non vanno presi troppo sul serio. D’altronde fai un lavoro divertente, che poi diciamolo non è proprio un lavoro, dài, vorrai mica essere pagato in denaro. Hai visto mai che 300, 400 o 1.000 € possano darci alla testa.[/vc_column_text][vc_column_text][/vc_column_text][mk_title_box color=”#9b9792″ size=”27″ line_height=”32″ font_weight=”300″ font_family=”none” align=”center”]
“Nel Paese patria del design e della creatività
il pensiero creativo viene richiesto a costo zero.”
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Gli ultimi casi balzati all’attenzione degli addetti ai lavori hanno per protagonisti una pasticceria di Ancona, l’Aeronautica Militare e la regione Abruzzo. Tutti e tre i soggetti hanno indetto un contest pubblico per la realizzazione di un marchio. È fin qui niente di strano. Ciò che fa incazzare, per chi ha ancora la forza di incazzarsi, è il compenso per il vincitore. La pasticceria ha messo in palio un buono da 100 € da spendere nella pasticceria stessa. Un modo elegante per non pagarlo. L’Aeronautica Militare premia i primi tre classificati rispettivamente con un iPad, uno smartphone e una fotocamera digitale, nemmeno reflex. Già che c’era poteva offrire ai vincitori la possibilità di assistere a uno spettacolo delle Frecce Tricolori. Ma chi si è superata nella scelta della “ricompensa” è stata la Regione Abruzzo. Qui siamo veramente al top e mi duole dirlo visto il mio legame col territorio. Non solo chiede la realizzazione di un marchio con tanto di bando (potete approfondire qui), in cui specifica con dovizia di particolari che deve essere realizzato con tutti i crismi, ma offre quale compenso al vincitore, cito testualmente, un formale attestato di riconoscimento rilasciato in occasione della conferenza stampa di presentazione del marchio che sarà indetta dall’Assessorato regionale. Qui siamo al paradosso. Cioé, io come designer, magari professionista, partecipo a una gara per realizzare un marchio e se vinco mi viene rilasciato un pezzo di carta che attesta cosa? Che so fare un marchio? Follia pura.
Le idee si pagano.
Recitava così il titolo secco e perentorio di un articolo di Guido Guerzoni uscito esattamente otto anni fa sul supplemento cultura de Il Sole 24 ORE. Se avete tempo e voglia di leggerlo lo trovate qui.
Io ci aggiungo che le idee si pagano cash.
Invece di mettere in palio 100 € in cornetti, da spendere per giunta nella vostra pasticceria, vi manda in fallimento metterne 200 in denaro dando la sensazione al designer di aver “guadagnato” qualcosa? E dico 200 per tenermi basso, sapendo che un marchio per un piccolo esercizio pubblico vale molto di più.
Un iPad, uno smartphone e una fotocamera insieme varranno 2.000 €? Bene, che vi costa mettere in palio l’equivalente in denaro solo per il primo classificato? È comunque una miseria in rapporto al prestigio del brand ma almeno si può fantasticare di risolvere tre mesi di mutuo. E voi, Pubblica Amministrazione, voi siete lo Stato, dovreste dare l’esempio. Sapete dall’inizio che la gara che state per lanciare non prevede un compenso in denaro. Ci sarà solo una conferenza stampa di facciata in cui il vincitore avrà in dono una simpatica “pacca sulla spalla” e un pezzo di carta, che non sarà nemmeno pergamena ma una patinata opaca uso mano da 250 g/m2, perché voi non volete spendere soldi. Piuttosto fatevelo da voi o assegnate direttamente il mandato a un esterno. Chi ve lo fa fare di mettere in moto un apparato burocratico per “vedere” centinaia di bozzetti di marchi, quando magari sapete già chi vincerà.
Inspired by:
Critica portatile al visual design – Riccardo Falcinelli – Ed. Einaudi
Dalla parte di chi guarda – Armando Testa – Ed. Umberto Allemandi[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][/vc_column][/vc_row]
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