paola-egonu

Si dice che un’immagine valga più di mille parole. È vero. Ma, ahimè, è anche vero che non è detto che le migliaia di parole siano quelle giuste o quelle che si vogliono far passare nel messaggio visivo. È contemporaneamente un difetto e un pregio delle immagini quello di prestarsi a diverse interpretazioni. D’altronde il mondo è come lo vediamo. La visione che abbiamo della vita e delle cose influenza la nostra percezione delle immagini. Questo dipende dalle esperienze, dalla cultura, dall’ambiente e più in generale dalle sovrastrutture mentali che ci creiamo nel corso della vita. Ognuno vede le cose in modo diverso da un altro. Anche le stesse cose.

La campagna Uliveto che celebra le imprese delle nostre nazionali di pallavolo è un esempio calzante di ciò che ho scritto qualche riga più su. Una parte di utenti si è scagliata contro l’azienda, colpevole di aver coperto con il prodotto Paola Egonu, la giocatrice di colore della nazionale femminile, manifestando velatamente un certo razzismo. A supporto della loro tesi contestano il fatto che la foto della formazione maschile ritraesse tutti gli atleti mentre quella femminile era (volutamente?) tagliata per censurare l’atleta di origine africana, tra l’altro una delle più forti.

Apriti cielo. Ora, premesso che non devo difendere Uliveto, voglio fare delle considerazioni. Diciamo che cerco di analizzare la cosa da un punto di vista diverso fornendo degli elementi che magari le persone dall’insulto facile ignorano o fanno finta di non conoscere.

Partiamo dal presupposto che Uliveto non sia animata da sentimenti razzisti. Almeno all’inizio mi piace pensare che nessuno lo sia. Quella campagna può essere uscita impaginata così per una serie di motivi. Ne elenco alcuni:

– Non c’era un’immagine diversa a disposizione. Per i più sofisticati maniaci del confronto dico che magari non era disponibile una foto della squadra femminile uguale come taglio a quella maschile. Chissà, fotografo diverso, posizione diversa. Se  veramente la foto è stata ingrandita per far finire Paola Egonu dietro la bottiglia allora è andata di culo al fotografo (e al cliente) che lei fosse defilata. Se capitava al centro dell’immagine cosa facevano? Mettevano la bottiglia in mezzo alla pagina? Ingrandivano la foto escludendo sei atlete per penalizzarne una?

– la fretta. Sì, è vero, chi fa questo mestiere sa che si confezionano con anticipo due annunci, quello in caso di vittoria e quello in caso di sconfitta ma non è detto che ci sia il tempo per farli considerando tutte le variabili, compresa quella di estromettere dall’immagine dei giocatori simbolo.

– Il brief. La campagna doveva celebrare la vittoria o il secondo posto di una squadra composta da diverse atlete. Il soggetto è Uliveto che ringrazia la squadra, non il contrario. Non è la prima volta che in vita mia vedo foto tagliate per esigenze di impaginato. Magari c’è un format rigido. Se, come è naturale che sia, l’atleta di origine africana è italiana a tutti gli effetti non ci si deve indignare se sia finita coperta in una foto perché si trova dietro al prodotto che, qualora ve lo foste dimenticato, è pur sempre il protagonista della campagna. Dietro la bottiglia potevano finirci altre ragazze, non sarebbe cambiato nulla ai fini della comprensione del messaggio. È la celebrazione di una squadra, non di “una squadra soprattutto un’atleta”, in una sorta di razzismo al contrario.

– Esigenze di impaginazione e committenza. La Nazionale ha vinto ma è Uliveto che paga la campagna e decide in una buona misura come deve essere fatto l’annuncio. Il prodotto sta lì, il marchio sta là, il resto è contorno.

– La distrazione. Una svista, anche macroscopica. Succede a chi lavora. Magari di fretta. Magari con il direttore creativo dietro al povero designer che dice come spostare gli elementi sulla pagina e il cliente al telefono che glieli fa rimettere dove erano prima. Questo accade medimente 20 volte per annuncio. Ci si amminchia su quanto deve essere visibile la bottiglia, quanto deve essere grande il corpo del testo, il marchio che deve essere “più grande” per definizione, e così via, in loop fino a che ci si dimentica del particolare dell’immagine che copre due atlete, come se loro in una foto DI SQUADRA, avessero titolo per essere più visibili di altre.

– Art direction approssimativa. Si sottovaluta l’importanza della cosa e si delega il lavoro senza una supervisione di un art director più esperto. L’inesperienza e la superficialità di cliente e agenzia possono causare problemi anche alla pubblicità più innocente.

Io non riesco a pensare che ci sia del dolo. Che ci sia stata dell’approssimazione sì. Poi magari salta fuori un’intercettazione telefonica o ambientale in cui si sente il cliente dire all’account “Mi raccomando, le atlete di colore non si devono vedere!”. Allora avrò perso tempo a scrivere questo post, avranno ragione quelli che gridano allo scandalo. Ma fino a quel momento, se non si è in grado di vedere oltre un’immagine stampata è meglio tacere. Si fa più bella figura.


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