Toto e Peppino

Evoluzione (o involuzione) della punteggiatura nell’era digitale.

L’avvento di nuovi modi di comunicare legato ai nuovi media ha avuto conseguenze rilevanti, oltre che sui nostri comportamenti, anche su molti aspetti del linguaggio che normalmente utilizziamo, dalla sintassi al lessico, dando vita a pseudo linguaggi di comunicazione influenzati dai media stessi.
La comunicazione pubblicitaria mutua i propri segni dai linguaggi che fagocita. Essendo quello pubblicitario un linguaggio “artificiale”, si comporta in maniera un po’ anarchica utilizzando il lessico della lingua comune a proprio uso e consumo.
Anche la punteggiatura ne ha fatto un po’ le spese e poiché di norme, o indicazioni generali valide come riferimento, fondamentalmente non ce ne sono, si sono venute a creare scuole di pensiero diverse circa l’utilizzo dei segni di interpunzione.
L’ultimo segno a finire nel mirino di chi esercita l’arte della scrittura creativa è il punto, che sembrava occupasse una posizione inattaccabile nella nostra grammatica.
Uno degli argomenti che divide i puristi dai riformisti è se sia opportuno usare il punto alla fine di un titolo. Il grande compianto Emanuele Pirella (1940-2010) sosteneva che il punto fermo doveva chiudere anche il più breve dei titoli. Era il famoso “Punto Pirella”, diventato un dogma nella sua agenzia.
Lo dimostrano due sue celebri headline entrate di diritto nella hall of fame della creatività italiana, diventando espressioni di uso comune come i proverbi: “O così. O Pomì.” e “Chi mi ama mi segua.”. Nell’ambito di un annuncio pubblicitario, la headline (o lo slogan) è una frase sintetica e incisiva che accompagna il visual, guidando il lettore verso la corretta percezione di un messaggio. In editoria l’equivalente dell’headline è il titolo di un articolo o di una rubrica, di un libro o di un suo capitolo. L’headline è come una storia. Ha un inizio, uno sviluppo e una fine, anche se può essere composta da tre sole parole. E la fine è sancita dal punto. Sotto questo aspetto appartengo alla corrente del “Punto Pirella” e dico che, senza arrivare ai livelli di Hemingway, il punto fermo va sempre messo. Vi dirò di più, se serve lo metto anche ai payoff. Condivido ciò che Annamaria Testa scrisse in un suo post di qualche anno fa, ossia che il punto fermo ci sta se il titolo è una narrazione perentoria che si sviluppa e si chiude, anche in poche parole. Ma se il titolo è fumoso, non afferma nulla, tanto meno chiude un discorso, allora metterlo è inutile perché verrebbe meno la sua funzione di perentorietà.

“Il punto ci sta nella misura in cui un titolo è una energica micro-narrazione dotata di un proprio tono di voce, e intesa ad affermare, suggerire, invitare, sedurre, stupire… insomma, quando il titolo racconta una storia che, anche se si sviluppa in poche parole, ha senso: comincia, e va avanti con tutta la punteggiatura necessaria. E finisce. Con un punto.” – Annamaria Testa

E se il punto non se la passa bene anche il resto della punteggiatura e la grammatica tutta non stanno meglio. Nel linguaggio scritto la punteggiatura serve a strutturare il testo, a renderlo comprensibile e leggibile e, soprattutto, a capire lo stato d’animo del nostro interlocutore, perché la punteggiatura determina anche il tono della conversazione, traducendo nel linguaggio scritto tutti quegli aspetti che fanno da contorno alla conversazione verbale come il linguaggio del corpo, la mimica facciale o il tono della voce.

Se a un’ipotetica affermazione o domanda rispondo “Va bene”, “Va bene!” o “Va bene.” la risposta scritta è la stessa ma quelle implicite sono almeno 5 o 6. Nel primo caso c’è una risposta “flat”, tranquilla, di routine. Nel secondo ci può essere entusiasmo o sfinimento, a seconda del pregresso della conversazione. Nel terzo c’è perentorietà, quasi la volontà di porre fine a una discussione, una presa d’atto obtorto collo, una sfida, come dire “Ok, va bene, poi facciamo i conti”.

Nelle conversazioni digitali questi aspetti vengono un po’ trascurati in virtù dell’ausilio delle emoticons che hanno in parte la responsabilità di aver appiattito la comunicazione scritta. Inoltre la punteggiatura viene utilizzata in modo diverso, a volte un po’ a sproposito, un po’ come Totò e Peppino nella memorabile scena del film in cui scrivono la lettera alla Malafemmina. Punti esclamativi e interrogativi come se piovesse, puntini di sospensione usati a gruppi di dieci alla volta, virgole a “Chi l’ha visto?”.
Anche qui l’avvento dei nuovi strumenti di comunicazione come le chat, Messenger, WhatsApp e simili ha relegato a un ruolo marginale la correttezza grammaticale. Il ritmo frenetico che ci impone la vita ci obbliga ad essere harder, better, faster, stronger. L’unico tempo possibile è il presente, rapido, sfuggente ed effimero. Brevità, immediatezza e la volontà di catturare rapidamente l’attenzione dell’interlocutore, rendono impossibile l’uso della lingua così come è stata appresa a scuola. Non c’è tempo (né voglia) di scrivere correttamente un messaggio. La punteggiatura salta, “perché” diventa”xké”, “però” diventa “xò”, “sono” diventa “sn” e potrei andare avanti, tanto il senso lo si capisce ugualmente. E dove non arrivano le parole e le virgole arrivano le emoticons.


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