Una delle cose che più patisco in questi ultimi anni è il deterioramento del rapporto tra cliente e agenzia. Non siamo più consulenti di comunicazione ma meri esecutori dei desiderata dei nostri clienti. Assecondiamo i loro capricci illusi di creare ancora qualcosa, quando in realtà la creatività è la cosa che meno viene considerata. La comunicazione non è più parte integrante del processo di sviluppo di un’azienda o di una marca ma un fastidioso “dovere” di cui molti imprenditori farebbero volentieri a meno.
Oggi ci misuriamo quotidianamente con la scarsa considerazione da parte degli imprenditori e dirigenti delle aziende. Col passare del tempo la qualità del lavoro si è notevolmente abbassata. La colpa non è solo delle nuove generazioni di manager cocainomani e creativi presuntuosi. La colpa è anche della massificazione di certe attività legate al mondo della pubblicità e della grafica: professionalità e tecnologie una volta privilegio di pochi oggi sono diventate accessibili a tutti. Anche a chi non sa nemmeno cosa sia la grafica. Effetti collaterali della globalizzazione. Questo aspetto ha messo a nudo un vuoto culturale imperante sui temi della comunicazione, nonché la scarsa conoscenza degli elementi di base delle professionalità ad essa collegate. Il rapporto col cliente di solito comincia sotto buoni auspici ma raramente finisce con la completa soddisfazione di entrambi. Di solito i creativi sono più depressi. La frustrazione del creativo non è figlia della della sua presunzione di onnipotenza ma ha motivazioni reali e più che giustificate che a volte possono persino non dipendere dalla volontà del cliente. E sfido qualcuno a contraddirmi.

Assenza di regole che tutelino la categoria.
Un aspetto in cui per una volta il cliente non c’entra. Potrebbe essere una mossa in controtendenza: oggi che si parla tanto di liberalizzazioni potremmo istituire un albo per tutelare la categoria dei pubblicitari o tecnici della comunicazione, che dir si voglia. La creatività è un bene che va coccolato e difeso. È un problema di cui spesso si è parlato, ma le associazioni di categoria sono troppo impegnate ad autocompiacersi e autocelebrarsi per pensare a chi, pur non lavorando in una grande agenzia, fa questo lavoro con dedizione e passione senza guardare il portafoglio e l’orologio.

Mancanza di cultura della comunicazione e sulla comunicazione.
Diretta conseguenza di quanto detto per la mancanza di un albo di categoria. Quando parlo delle difficoltà della mia professione faccio sempre questo paragone: se compro una casa mi rivolgo a un notaio. Se la ristrutturo mi rivolgo a un architetto, se mi ammalo mi rivolgo a un dottore. Chi ha bisogno di un progetto di comunicazione pensa che non sia necessaria una professionalità specifica. Ecco che saltano fuori nipoti che si dilettano col computer, amici appassionati di fotografia. In fondo, che ci vuole a mettere insieme una foto con un testo. Chiunque può farlo.

Scarsa attenzione alla formazione.
In Italia, se si escludono alcuni master e qualche azienda in cui viene praticata una formazione adeguata e di alto profilo, investendo sulle persone e facendole crescere, il panorama didattico sulla comunicazione, sul design, sulla fotografia, sul marketing, è assolutamente inadeguato. E non vengano a parlarmi di IED e affini.

Concorrenza spietata.
La maggior parte delle agenzie di comunicazione vive tra l’incudine e il martello. Da un lato le grandi agenzie potenti e prepotenti: pochi soggetti che si aggiudicano i grandi budget in virtù di conoscenze politiche o rapporti di lunga data con i vertici delle grosse aziende (Testa-Lavazza, il primo che mi viene in mente). Dall’altro lato ci sono una miriade di piccoli soggetti, tipo ex direttori creativi di medio-grandi agenzie silurati che si mettono in proprio, ma anche (purtroppo) soggetti non qualificati privi di parametri culturali ed economici, che fanno risparmiare a fronte di una qualità del lavoro spesso imbarazzante.

Scarsa cultura d’impresa. 
Ultimo ma non meno importante aspetto. Quello più tangibile di tutti perché è la quotidianità con cui io e i miei colleghi ci scontriamo tutti i giorni. La moda di oggi all’interno delle aziende è affidare il marketing e la comunicazione a validi, generosi ma purtroppo impreparati stagisti. Ragazzi che per quanto volenterosi e svegli non incarnano per forza di cose i valori dell’azienda e della marca che gli viene affidata. Per giunta il turnover è altissimo, per cui non si forma un gruppo di persone affiatate e competenti in grado di costruire una generazione di dirigenti preparati. La crescita professionale va da promettente manager a largo factotum, fattorino compreso. Questo per far capire quanto pubblicità e marketing in Italia siano considerate attività secondarie.


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